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Diario della Grande Guerra - a cura di Daniele Furlan

Da Caporetto alla Battaglia del Solstizio

lun 13 lug 15

Dopo la partenza di Don Giuseppe Semenzin furono costrette a lasciare il paese anche le suore, che sino a alcuni giorni prima erano state impiegate come infermiere presso l’ospedale militare situato negli edifici dell’Opera Pia Gasparinetti, il quale era già stato sgombrato mettendo in salvo tutto il materiale del convalescenzario, operazione che non riuscì invece per il materiale dell’Opera Pia, interamente abbandonato sul posto. Dopo un lungo peregrinare in condizioni assai disagiate le suore riuscirono a riunirsi a Torino, da dove vennero destinate ad altri asili ed ospedali militari che necessitavano della loro opera. Rimasero sul territorio solamente le suore di Levada, che nonostante la tutela del vicario Dottor Giacomo Schiavon non riuscirono a salvarsi dai disagi provocati dall’esercito invasore. Nonostante la concitazione di quei momenti, Don Zanetti riuscì a salvare alcuni degli oggetti più preziosi contenuti nella chiesa arcipretale di Ponte di Piave, trasferendoli in località Grasseghella presso la casa del signor Alessandro Girardi, ove una stanza venne trasformata in una minuscola cappella. I giorni successivi furono convulsi, ma divennero addirittura opprimenti quando in data 9 novembre 1917, il primo tedesco raggiunse in bicicletta la Grasseghella per comunicare alle 500 anime che vi si erano rifugiate l’inizio della prigionia. Medesima sorte dovette subire la restante popolazione di Ponte di Piave, ormai completamente sgombrata dal paese ma anch’essa in regime quasi di schiavitù. Una condizione che venne definitivamente sancita quello stesso giorno dall’urlo del ponte che crollava sotto l’effetto della dinamite, il cui cupo rimbombo si udì in tutto il circondario ed annunciò la separazione dal resto d'Italia.
Nel capoluogo la condotta degli austriaci non si discostò molto da quella tenuta a Negrisia; anche qui il loro istinto distruttore li spinse a compiere atti di inconsulta devastazione, e sottoporre il popolo prigioniero a continue angherie e soprusi nonché vessazioni d’ogni tipo. In poco tempo dissiparono tutte le riserve alimentari che trovarono nelle abitazioni e fecero scempio di quelle conservate nei magazzini, condannando alla fame non solo gli abitanti del paese ma pure se stessi durante il successivo anno di occupazione. Per render l’idea della loro barbarie ma anche della loro sventatezza basti ricordare l’episodio occorso presso le cantine dei fratelli Burei. Queste erano situate giusto di fronte alla canonica, ed essendo appena terminata la stagione delle vendemmie, erano colme di vino custodito in moderni recipienti in cemento di grande capacità. Due soldati austriaci già ben avviati verso una potente ubriacatura, fecero irruzione nelle cantine sfondando le porte, e volendosi concedere un ulteriore brindisi cominciarono ad armeggiare con le porticine e le valvole di sfiato dei grandi contenitori, sino a che la loro incapacità giunse sino al punto di strapparle, al che furono travolti dalla veemenza della massa liquida che li stese al suolo mentre il locale si trasformò in un vero e proprio lago. Galleggianti nel vino, così vennero trovati i loro corpi alcuni giorni dopo, affogati ignominiosamente come topi ingordi e non come uomini d’armi.
Mentre i bombardamenti su Ponte di Piave continuavano ininterrottamente, per Don Zanetti e gli abitanti “sgomberati” dalle loro case ormai ridotte a cumuli di macerie, si andava prefigurando l’internamento a Pavia di Udine. La popolazione avvisata per tempo aveva disposto in modo ordinato per il trasporto le poche cose che ancora erano in loro possesso, ma la mattina del 23 febbraio 1918 i soldati austriaci senza alcuna forma di rispetto fecero salire uomini, donne e bambini su dei vagoni normalmente adibiti al trasporto del bestiame, gettarono le loro masserizie su alcuni camion mentre tutti gli animali rimasero abbandonati o in proprietà degli stessi soldati austriaci. Il triste convoglio giunse a Buttrio la sera stessa, e fu solo grazie alle estenuanti trattative di Don Zanetti se riuscirono ad avere una magra cena; da Buttrio furono dirottati a Pavia di Udine ove arrivarono la mattina del 25 febbraio 1918. Recuperate le pochissime proprietà rimaste, malamente sballottate durante il trasporto in camion, vennero distribuiti nelle case di proprietà degli abitanti fuggiti dopo la disfatta di Caporetto per non cadere nelle mani dell’esercito invasore. Don Zanetti trovò ospitalità presso Don Giacomo Molinari arciprete di Pavia Udinese che si dimostrò zelante e caritatevole oltre che con il prelato anche con i “nuovi” parrocchiani. Almeno dal punto di vista logistico sembrò una sistemazione onorevole: nelle case abbandonate le famiglie poterono ricomporsi, lo spirito di comunità ricrearsi, ma fu solo un raggio di luce che illuminò le loro menti e sollevò un po’ lo spirito. Ben presto ricominciarono da parte dei soldati austriaci una serie di vessazioni ordinate dal loro Stato Maggiore per portare allo stremo delle forze i profughi italiani, ma a questi continui soprusi “organizzati” si aggiunsero anche quelli estemporanei, ideati direttamente dai soldati austriaci, per vendicarsi nei confronti di una popolazione che ritenevano causa della guerra in corso.
I profughi di Ponte di Piave internati a Pavia Udinese furono circa 300, e la loro permanenza nel territorio friulano fu segnata da una costante condizione: la fame. Il cibo mancò non solo ai profughi ma anche alle truppe austriache che li sorvegliavano, e non avevano altro modo di nutrirsi se non quello di continuare le requisizioni nelle abitazioni usufruite dai loro prigionieri sperando di trovarvi qualcosa da mangiare. In quelle condizioni poca importanza ebbe chi fosse il carcerato e chi il carceriere, la vera lotta per la sopravvivenza dipese esclusivamente dalla capacità di riuscire a nutrirsi. I profughi pontepiavensi ripresero a lavorare i terreni attigui al paese di Pavia, nascondendo nella locale chiesa arcipretale il frutto del loro lavoro affinché scanpasse alle perquisizioni dei soldati. Così l’altare divenne un piccolo granaio, sotto al pavimento della canonica furono nascosti frumento, formaggio, salame e diversi fiaschi di olio e di vino, persino l’organo ed ogni intercapedine dell’edificio religioso divennero preziosi forzieri. In quella particolare situazione non mancarono “scambi di ruolo” relativamente alla classe sociale previamente occupata: i componenti di alcune famiglie nobili o benestanti di Ponte di Piave si ritrovarono a dover chiedere l’elemosina di un po’ di cibo a quei contadini che prima della guerra lavoravano alle loro dipendenze. Fu l’avvedutezza e l’intraprendenza di Don Zanetti a mantenere unita quella comunità affamata ai limiti dell’inedia, lontana dal suo habitat naturale, senza alcuna notizia dei propri cari rimasti nei pressi del Piave, o che sul Piave stavano combattendo per respingere l’esercito invasore; una comunità che perse alcuni dei suoi componenti, morti quasi esclusivamente per fame durante quel triste periodo, che però tratteremo meglio in una delle prossime cronache grazie ai documenti rinvenuti dal mio fedele aiutante Alberto Saviane.

GRANDE GUERRAGRANDE GUERRA

GRANDE GUERRAGRANDE GUERRA

 


 



news pubblicata il lun 13 lug 15